Non è la prima volta, direbbero i nostri lettori più attenti, che una simile problematica coinvolge un social network di grande popolarità (vedi le polemiche piovute su “Ask” e “Whatsapp” nel recente passato), ma questa volta la questione si fa più seria.
Inquietanti legami con la politica, infatti, ci sarebbero dietro alla violazione che Facebook avrebbe fatto dei dati personali di oltre 50 milioni di utenti registrati, il tutto per il tramite della società britannica “Cambridge Analytica“, che ha dato il nome allo scandalo.
Cambridge Analytica e i suoi legami con la politica americana
Quella di Cambridge Analytica è una storia abbastanza recente: la società nasce a Londra nel 2013 da un’idea del miliardario Robert Mercer e di Steve Bannon. La società si occupa di raccogliere e combinare milioni di dati provenienti dal web (principalmente dai social network) e, tramite sofisticati algoritmi, è in grado di creare dei profili di un numero indeterminato di utenti, in base alle loro ricerche e soprattutto ai loro “mi piace”.
Tralasciando per un momento il discorso sulle modalità di acquisizione dei dati, resta da capire cosa ne fa la società dei delicatissimi dati che si ritrova in seguito alle elaborazioni degli algoritmi. Ebbene, a tal proposito, basti pensare che Steve Bannon, uno dei fondatori della società, è stato capo stratega del presidente Trump dall’inizio del suo mandato e prima ancora uomo chiave della sua campagna elettorale.
Robert Mercer, invece, proprietario della stessa società, è noto negli Stati Uniti per le sue idee politiche conservatrici e per aver finanziato più volte il partito repubblicano di Trump. A questo punto, facendo due più due, viene naturale pensare che la società abbia contribuito attivamente, nel corso delle ultime elezioni politiche americane, alla vittoria del candidato repubblicano, e che nel farlo si sia servita dei dati raccolti tramite diversi “broker dati” affiliati alla società.
Ed è qui che entra in gioco Facebook e le responsabilità che il popolare social network avrebbe avuto nella violazione che Cambridge Analityca ha fatto dei dati di milioni di utenti.
Cosa rischia Facebook e come è coinvolto nella vicenda
Fra le condizioni d’uso imposte dalle politiche sulla privacy di Facebook, c’è il divieto da parte di proprietari di App di condividere con terzi i dati a cui hanno accesso; in altre parole, è possibile per diverse app e siti web accedere ai dati degli utenti Facebook, ma questi non sono autorizzati in nessun modo a condividerli con terzi in causa.
Nel 2014, però, un ricercatore britannico, l’esperto informatico Aleksandr Kogan, progettò l’app “thisisyourdigitallife“, che ufficialmente lavorava a scopi scientifici (tanto che pagava gli utenti per compilare dei questionari), ma che nascondeva dei legami con Cambridge Analytica, società a cui trasmetteva l’enorme mole di dati raccolti sia su chi scaricava l’app che sugli amici di questi ultimi.
Quando la vicenda è venuta fuori e Cambridge Analytica ha fiutato il pericolo di gravi sanzioni, la società si è autodenunciata, ma era troppo tardi. Ed è qui che le responsabilità di Facebook vengono fuori in tutta la loro evidenza: perché il colosso americano ha bloccato Cambridge Analytica dopo due anni dalla propria autodenuncia? Perché lo ha fatto solo dopo che l’inchiesta è venuta fuori?
È quello che si chiedono da ormai diverse settimane sia il New York Times che il Guardian, che hanno portato avanti l’inchiesta, così come gli organismi politici più importanti al mondo. Intanto Facebook, oltre al crollo in borsa e alla perdita di credibilità fra i suoi utenti, rischia una sanzione record.